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Il gadget che stava qui è sospeso per 24/48/60 ore.
Stiamo valutando una soluzione alternativa.
Ghe pensi mi, così si espresso il Presidente dell'Isola che ha già riunito un'apposita task force che si concentrerà per trovare la soluzione migliore nel minor tempo possibile.
Nel frattempo nell'Isola c'è agitazione.
Pare esistano forme di vita intelligenti.
Il Presidente è sconvolto dalla raggelante novità.


mercoledì 27 ottobre 2010

Izmir




Izmir, questa sconosciuta....

Innanzitutto non si chiama neanche Izmir, o meglio all'estero è conosciuta così, in quanto questo è il suo nome turco, ma la città si chiama Smirne.

Il nome Smirne (Smyrna) significa Mirra in greco antico, e si riferisce alla presenza di questo arbusto nella zona dove la città è stata fondata.

Ma al di là di questo, dove cacchio si trova questa città ? Quanto è grande ?

Wikipedia mi spiega che Smirne è una città di 4.130.444 abitanti (5,3 milioni nell'area metropolitana) della Turchia centro-occidentale, la terza del paese per numero di abitanti dopo Istanbul e Ankara, che è anche un grande ed efficiente porto situato sull'omonimo golfo, nel Mare Egeo e che è una delle città che si contendono l'onore di essere la città natale del leggendario (e forse mai esistito) poeta antico Omero e di Bione.

Ma allora perchè non l'ho mai sentita prima ?

Per arrivarci occorre passare da Monaco (in Germania), o da Istanbul (passando però da Roma), insomma non è proprio agevole, ma d'altronde da Torino ormai è difficile raggiungere in aereo qualsiasi località...

La Turchia sta diventando la fabbrica di Europa (e di tutto il mercato dell'Arasia) e, almeno su alcuni campi, non ha molto da invidiare alla Cina, in quanto a produzione.

Non ci credete ?

Ebbene, sappiate che qui, non proprio ad Izmir, ma qui vicino, c'è un'azienda che progetta e costruisce televisori per ben 395 marche differenti !

395, avete capito bene.

Guardate la vostra tv, è assai probabile che, a prescindere dalla marca che vedete, sia stata progettata e prodotta qui....

L'azienda è enorme, migliaia di dipendenti, 24 ore su 24 ore di produzione, su tre turni di 8 ore.

Tutti giovani, pari dignità uomo / donna, forse più donne che uomini al lavoro.



Siamo proprio così sicuri di essere noi occidentali a dover spiegare agli altri alcune norme sulla parità dei diritti e sulla civiltà ?

Ha ancora senso discutere se la Turchia debba essere o meno in Europa, quando di fatto sono la fabbrica di moltissime aziende europee (pure la fiat si fa fare qui le macchine, tanto per stare in tema...) ?

Io non so rispondere, ma qui si tocca con mano storia, cultura e una notevole espansione economica.



Alla prossima

mercoledì 20 ottobre 2010

AL VARCO

Con questi pochi fogli arriverò al varco
e starò in fila con gli altri paziente.
Il passatore mi scruterà dall'alto chiedendomi
perentorio: - e tu chi sei? sul mio elenco è scritto
"docente": - No - risponderò col solito
imbarazzo la voce un pò
arrochita - no, io ho solo imparato
nè m'è bastato il tempo di capire...-
Poeta? hai le referenze il curriculum
le note critiche? - Scuoterà il capo, lo sguardo
pesante d'ironia - No, era un hobby un
gioco un segreto vizio - sussurrerò a disagio-
Una volta soltanto colsi la grazia:
vedi quei versi, sono ricamati
sulla mia camicia da notte, come gli antichi
motti delle donne pudiche
proteggono i miei sogni, splendori nel buio-
- Allora passa - dirà il traghettatore
rabbonito: - Potrai fermarti, se vuoi, sulla riva
del fiume di Siddartha,
il lungo canto dell'acqua per te
avrà un senso, sarà pace e armonia.

domenica 17 ottobre 2010

IL NANO VOLANTE

Nanetti, sveglia! disse Biancaneve.
Cucciolo e Gongolo, come sempre, furono i primi a saltare giù dai lettini.
Cucciolo, vai a lavarti e prepara la tavola per la colazione, ordinò Biancaneve, che aveva organizzato i turni settimanali apposta.
Appena il nanetto più piccolo di tutti fu uscito, Biancaneve batté le mani:
Presto, presto, alzatevi, ché dobbiamo preparare una festa a sorpresa per Cucciolo. Dopo colazione lo manderò in cucina a sbucciare le mele per la torta, e intanto noi gli faremo una bella improvvisata, oggi è il suo compleanno, l’avete dimenticato?
Allora cominciarono le proteste.
Pisolo si lagnò: Ma io voglio restare a dormire ancora!
Eolo accampò la solita scusa: Ma io ho il raffreddore, etcì, etcì!
Dotto si difese: Ma io sono vecchio e poi stamattina devo consultare un libro antico, che mi è appena arrivato…
Mammolo si fece tutto rosso e cominciò a balbettare: Ma ma io io so sono sta sta stanco!, per paura che, approfittando della sua timidezza, gli facessero fare i lavori più noiosi e pesanti.
Solo Gongolo era entusiasta: Evviva! Evviva! Una bella festa!
Brontolo addirittura si inferocì: Non contate su di me per quella testa di c…(l’ultima parola la brontolò fra i denti, perché Biancaneve non voleva sentire parolacce), e se ne uscì sbattendo la porta.
Tutti sapevano già che ce l’aveva con Cucciolo, alle volte si erano anche picchiati, perché in fondo in fondo (ma non lo avrebbe ammesso mai) Brontolo era geloso di Cucciolo, che essendo più piccolo, aveva più coccole da Biancaneve, perciò nessuno fece caso alla sua uscita.
Biancaneve comunque riuscì a metterli in riga, portò il caffè a Pisolo, fece l’aerosol ad Eolo, rassicurò Mammolo che gli avrebbe fatto fare solo lavoretti leggeri, infatti lo mise a ritagliare carte veline colorate per fare festoni; Gongolo gonfiò i palloncini, Pisolo provò la canzone di auguri al pianoforte, Dotto scrisse una poesia su un cartellone.
Nel pomeriggio cominciò la festa, i nanetti cantarono, suonarono, ballarono ed erano così infervorati che nessuno fece caso all’assenza prolungata di Brontolo.
Solo Biancaneve era preoccupata e ogni tanto, senza darlo a vedere, sbirciava dalla finestra.
Alla fine, mentre tutti cantavano in coro: Tanti auguri a te! Cucciolo commosso spense le 100 candeline sulla torta.
Allora Biancaneve, che non ne poteva più per l’ansia, invitò i nanetti a seguirla nel bosco per cercare il loro compagno assente, perché il sole stava tramontando e tra poco sarebbero avanzate le ombre della notte.
I nanetti cercarono dappertutto, chiamando Brontolo a turno e tutti insieme, ma di lui non trovarono nessuna traccia.
Scese la notte, ma Brontolo non si ritirò a casa.
Passarono i giorni e i mesi, Brontolo non tornava, i nanetti erano tristi e inquieti, perché in fondo gli erano tutti affezionati e sentivano la mancanza dei suoi brontolii.
Un giorno Biancaneve, che soffriva molto, anche se non lo dava a vedere per non avvilire di più i nanetti, per farli distrarre decise di condurli a vedere lo spettacolo di un circo che si era installato ai margini del bosco.
La seguirono di malavoglia, solo perché lei insisteva.
Videro elefanti, domatori di leoni, cavallerizze spericolate, pagliacci e alla fine fu annunciato un numero sensazionale: il Nano Volante.
Apparve sulla scena un nano con un mantello simile alle ali di un pipistrello, che doveva lanciarsi da un trapezio all’altro, nel vuoto.
I nanetti alzarono il naso in su e quando il Nano Volante lasciò il primo trapezio uscirono in un solo grido: Brontolo!!! Ma quello è Brontolo!!!
Il Nano Volante ebbe un attimo di esitazione, non raggiunse a tempo il secondo trapezio e cascò pesantemente sulla rete sottostante.
Biancaneve fu la prima ad accorrere, ma il povero nanetto era svenuto.
Lo portarono dietro le quinte e quando riaprì gli occhi, ancora tutto stordito, fu assalito dai suoi amici , che gli rivolsero mille domande e mille rimproveri:
Non mi hai fatto più chiudere occhio!diceva Pisolo.
E Dotto sospirava: Non riuscivo più a concentrarmi sui libri!
Mammolo balbettava più del solito e non si capiva niente di quello che stava farfugliando.
Gongolo ballava per la contentezza.
Eolo si soffiava il naso più rumorosamente del solito.
Cucciolo lo abbracciò forte forte e Biancaneve gli fece tante coccole.
Brontolo pareva confuso ma in fondo felice.
Piano piano fu tutto chiarito.
Il giorno del compleanno di Cucciolo, Brontolo, arrabbiatissimo, se n’era andato nel bosco, era inciampato su una radice e aveva battuto la testa, perdendo la memoria.
Il direttore del circo lo aveva trovato e gli aveva insegnato a volare tra i trapezi.
Era diventato bravo e gli era anche piaciuto esibirsi davanti alla folla nel circo, ma ora che, cadendo nella rete, aveva riacquistato la memoria, voleva tornare con Biancaneve e i suoi amati fratellini.
Il direttore del circo era molto dispiaciuto, ma si dovette arrendere.
Così Brontolo tornò nella casetta in mezzo al bosco, Biancaneve gli preparò tante ghiottonerie, gli altri nanetti gli fecero grandi feste, tanto che Brontolo per un bel pezzo…smise di brontolare!

giovedì 14 ottobre 2010

Debito sovrano.....36 anni dopo o forse, 2a parte

Dopo la cerimonia in comune, di corsa a casa per festeggiare l'evento con pasta al forno e braciola ( involtino di carne bovina con formaggio e uova),quindi in viaggio per Napoli ospiti dei parenti della mia adorata sposa. A Porta Nuova il treno partì in orario, durante il viaggio lo splendore della campagna ci faceva compagnia mentre ci scambiavamo l'amore.
Nel programma del nostro viaggio di nozze ci aspettava un fine settimana al Vesuvio, hotel che sovrastava Margellina ed il ristorante della zì Teresa, mi sentivo quasi un principe. La mattina quando spalancai le tende, ( avevo poco meno di 23 anni ), mi avviai al piano terra per fare colazione ( avevamo rifiutato di farla in camera), incrociai lungo il corridoio una donna elegantissima che al mio buongiorno mi rispose schiacciandomi due delle sue dita sulle labbra, le sentii molto fredde e come di incanto mi ricordai del lavoro e dei debiti da pagare... Da allora sembra che il tempo si sia fermato, la crisi perenne della fiat, con i suoi alti e bassi, con le sue obbligazioni "spazzatura", allora forse come oggi, sarebbe bastato svalutare la lira, accompagnata da qualche licenziamento ed il problema sarebbe risolto...Qualche anno dopo la marcia dei 40.000 colletti bianchi a Torino, per chiedere lavoro e futuro per i propri figli...Dopo tantissimi anni mi accorgo che la fascia dei ricchi e poveri si è allargata di moltissimo, tenendo in considerazione che l'1% possiede la ricchezza del 47% del pianeta, i più ricchi vivono in Europa e in Nordamerica...

martedì 12 ottobre 2010

36 anni dopo o forse 1a parte


Era un giorno come un altro, in un comune in provincia di Torino mi scambiai un anello con una donna come se fosse un gioco di bambini. La cerimonia fu molto modesta ( anche perchè alcune settimane prima al casinò di S. Vincent andarono in fumo i risparmi del mio amore), da allora vi assicuro che tante cose sono cambiate ed altre no :-) intanto vi invito a brindare con noi :-)

venerdì 8 ottobre 2010

DIARIO DI GUERRA

Era il 9 giugno 1940, avevo compiuto nove anni da pochi giorni, mio padre mi condusse a visitare la Mostra d’Oltremare, che quella sera si inaugurava (sarebbe stata chiusa il giorno dopo) in una vasta area, ai margini del mio quartiere, Fuorigrotta, in uno sfolgorio di luci e una grande ressa di visitatori.
Stringevo forte la mano di mio padre e guardavo con occhi stupiti quel paese delle fiabe, i minareti di pietruzze luccicanti, gli ascari con i loro costumi sgargianti (era la prima volta che vedevo un uomo “di colore”), la breve teleferica, che congiungeva la Mostra alla collina di Posillipo, ma soprattutto m’incantò la Torre del Partito, all’entrata, tutta illuminata, la cui parete frontale era interamente coperta da una gigantografia di lui, il Duce, a mezzo busto, in posa di condottiero, con un sorriso smagliante, che prometteva sicurezza, assicurava il successo, garantiva la vittoria.....

Il giorno dopo, 10 giugno, nel pomeriggio stavo tornando con mia madre verso casa e vidi improvvisamente le strade vuotarsi: la gente correva nei bar o a casa per ascoltare il discorso di Mussolini, la dichiarazione di guerra…
La voce tuonava dagli altoparlanti, io non capivo gran che, ma quando cominciarono a trasmettere le ovazioni della folla sotto il balcone di Palazzo Venezia, mia madre, che aveva già sofferto la Prima Guerra Mondiale, esclamò risentita:
“Vide lloco, chillu disgraziato!”
Raggelai: disgraziato al Duce, quello della gigantografia, delle letture sul mio libro di V elementare che inneggiavano al Fascismo, ai suoi martiri…Avevo perfino vinto un premio, in una gara tra gli alunni delle scuole elementari di Napoli, per un tema sul Duce…
Però non chiesi nulla: non si usava, ai miei tempi, chiedere spiegazioni ai grandi.....

Del Fascismo mi piaceva la mia divisa di Piccola Italiana, con la M di legno colorato cucita sul taschino,il gonnellino nero e il mantello che si chiudeva in gola con una catenella dorata: ah, quanto amavo il mio mantello, che indossavo ogni sabato per l’alzabandiera, davanti alla Casa del Fascio, dove c’era un altorilievo che rappresantava Filippo Corridoni…
E fu in quella casa del Fascio che per la prima volta incontrai il Teatro: non ricordo più l’argomento della recita, fatta da ragazzi della G.I.L.(Gioventù Italiana Littorio), probabilmente riguardava la guerra e l’immancabile vittoria finale, ma il momento culminante fu la canzone di Lili Marlene, cantata da una ragazza, sotto un finto lampione, con un costume che al cambio delle luci si colorava di blu di rosso di giallo…Ne fui affascinata

La prima sensazione della guerra è legata all’oscuramento.
La sera bisognava spegnere le luci o almeno schermare le finestre, per evitare che i bombardieri nemici individuassero i centri abitati.
Mio padre una sera stese un enorme foglio di carta azzurrina – quella usata per impacchettare i vermicelli – sulla tavola della cucina, sotto la carta moschicida, punteggiata di nero dagli insetti che vi erano rimasti invischiati, la tagliò a strisce e l’incollò sui vetri delle finestre, per evitare che si rompessero “per lo spostamento d’aria”, dovuto alle esplosioni.
Quando faceva buio, accendevamo una fioca luce solo in cucina, dove i vetri delle finestre erano stati completamente ricoperti da una carta nera lucida, quella che usavamo per ricoprire libri e quaderni scolastici, perché il nero mantiene (=dissimula) lo sporco.
Il capopalazzo girava intorno all’isolato delle Case Popolari - rione Duca d’Aosta - dove abitavamo e richiamava con voce stentorea gli inosservanti: signor Pagano! Spegnete le luci! Signora Valentini!
A proposito di quest’ultima, mi è rimasta impressa una sua conversazione con mia madre: la signora si mostrava molto compiaciuta perché dalla contraerea nemica non era stato abbattuto l’aereo pilotato da suo figlio, bensì quello che gli volava a fianco.
Lei attribuiva lo scampato pericolo del figlio alle sue preghiere, rivolte alla Madonna di Pompei.
E io pensai a quell’altro aviatore caduto con una stretta al cuore: per lui non aveva pregato nessuno?

Avevo ascoltato per anni i racconti di guerra di mio padre, che era tra i pochi uomini alti all’epoca, infatti aveva combattuto da granatiere nella Prima guerra Mondiale, a 20 anni, ed era stato anche ferito a un braccio. Descriveva la vita di trincea, gli scontri corpo a corpo con gli Austriaci sul Monte Grappa, quando avanzava con la baionetta inastata, come ubriaco, e una volta ci raccontò la fucilazione di un giovanissimo commilitone napoletano, che aveva cercato di fuggire e, riacciuffato, era stato subito fucilato mentre invocava a gran voce: “Mammà, Maronna mia!”
Erano comunque fatti lontani, mitici, mentre questa guerra era vicina, incombente, ci stava addosso a tutti, grandi e piccini.
Quando i bombardamenti si intensificarono, che tormento svegliarsi di notte al suono della “sirena” che ululava in cima ai tetti, rivestirsi in fretta e correre nel “rifugio”, che poi era lo scantinato del palazzo: le prime volte noi ragazzi giocavamo a nascondino dietro i pilastri, ma poi il rumore delle esplosioni impressionò anche noi…La mattina dopo cercavamo per strada le schegge della contraerea, però corse voce che i bombardieri lanciavano penne, che esplodevano in mano ai bambini e ci fu proibito di raccogliere qualunque cosa per la strada.
Sentivamo di palazzi crollati per i bombardamenti, di gente rimasta senza casa…Ormai dormivamo vestiti, per essere più pronti a scendere nel rifugio quando suonava l’allarme..
La sera una processione di famiglie si recava a passare la notte sotto la grotta che congiungeva Fuorigrotta con Mergellina: i più tempestivi, o più prepotenti, si erano accaparrati i posti al centro, considerati i più sicuri, ma i miei genitori non ci vollero mai mettere piede.
Altri, per paura o perché non avevano più casa, dormivano sui gradini delle scale della metropolitana: la mattina, per andare a scuola, dovevamo scavalcare corpi maleodoranti e misere masserizie…

La situazione divenne intollerabile, i bombardamenti imperversavano anche di giorno: ricordo una volta, a via Toledo, la folla in fuga, che mi schiacciava contro il muro, dove rimasi, bloccata dal panico, finché una donna mi trascinò via con sé, in un rifugio poco lontano…
Un’altra volta dovemmo scendere dal treno, fra la stazione del Corso Vittorio Emanuele e Montesanto, perché era mancata la corrente. Camminavo incespicando in un tunnel al buio, chi poteva si accendeva una torcia col giornale, un ragazzo che aveva solo un accendino mi chiese della carta e io sacrificai una parte del libro delle Fiabe di Andersen che avevo con me…
Quanto mi piacevano le canzoni del tempo di guerra! Ancora adesso, restano dolci nella memoria con i loro motivi, perché comunque legate alla fanciullezza:
La Sagra di Giarabub: Colonnello non voglio pane
dammi il piombo per il moschetto
……………………………………
Colonnello non voglio l’acqua
dammi il fuoco vendicatore…..
ma la preferita era: Soldatini di ferro, tanto più che me la cantava mio cugino Fernando, con il quale avevo un feeling infantile:
Dice il bimbo : Papà, per favor
sai tu dirmi se in petto hanno un cuor?
Sorridendo il papà dice: No
I soldati che vedi oggidì
Sono tutti di ferro così.

All’inizio del 1943 le scuole furono chiuse e gli alunni promossi in base ai voti del primo trimestre.
Allora sfollammo a Soccavo, attuale periferia sovraffollata di Napoli, allora un paese di campagna, a casa di mia zia Fortuna, una casa formata da due enormi stanzoni dalle pareti scrostate, in cui ci ammucchiammo una famiglia per camera, una cucina annerita con uno sportello in alto come unica bocca d’aria e una rientranza nel muro chiusa da una porta di legno: era il gabinetto!
In seguito ci trasferimmo in un terraneo di una casa di campagna e qui entrai in contatto diretto con la cultura contadina: i materassi erano riempiti di sbreglie, ovvero di foglie secche di granturco, che la mattina bisognava rivoltare, infilando le mani in un’apposita apertura del saccone; le contadine, scoprii, non portavano biancheria intima e urinavano sulle zolle aprendo le gambe, in piedi, il che mi impressionò non poco ( tutto sommato ero una cittadina!); imparai a raccogliere l’erba per i conigli, andando scalza per i prati (i piedi mi si allargarono e si indurirono, cosa di cui da adolescente mi sarei rammaricata) e a spaccare i tronchetti di legno con l’accetta.
La sera, d’inverno, andavamo nell’ampia cucina del contadino che ci ospitava e lì ci stringevamo intorno al camino acceso, ascoltando i racconti dei grandi: “la fiamma è bella” e mi incantava.
Vidi perfino un rituale di preparazione a un matrimonio, in quei tempi così precari: in un basso c’era, esposto sulle sedie impagliate, il corredo ricamato della sposa, con le carte veline sotto i ricami per metterli in risalto…
Su una sedia c’era una grossa bambola, con un enorme vestito a campana, non destinata a giochi infantili, ma a sedere al centro del letto matrimoniale, con la gonna aperta a far da copriletto. Ancora oggi si sente dire da qualche donna anziana, a proposito di una bella ragazza: “Si’ bbella comm’a bambula mmiez’o lietto!”

Del resto in un’altra casa avevo visto dei giocattoli: un camion, una busta coi birilli, appesi a un chiodo e alla mia domanda meravigliata, i bambini avevano risposto rassegnati: “se no si rompono”.
Io invece avevo una bambolina di pezza che mi portavo dappertutto, in tasca o in una borsetta: era piena di segatura, aveva i capelli fatti con le reste del granturco e gli occhi e la bocca dipinti sulla stoffa.
Alla fine dovette rosicchiarla un topo, la trovai tutta sventrata e ne soffrii, ma ormai ero grande per le bambole.
Al piano di sopra abitava una coppia senza figli: lui ogni mattina scendeva impettito la scala, vestito da fascista di tutto punto, gambali e fez compresi. Probabilmente così conciato andava in giro per i negozi a ottenere qualche genere alimentare.
Il 26 luglio la moglie del fascista si affacciò dalla scala, gridando che il marito non aveva mai fatto male a nessuno: io non capivo cosa avesse da sbraitare così all’improvviso, poi alle spalle spuntò il marito, in borghese, senza più l’aria baldanzosa e scopersi improvvisamente quello che era: un pover’uomo.
Non si trovava più nulla da mangiare, nemmeno alla borsa nera, mia madre un giorno cosse le bucce dei piselli. Capii la fame…

Dopo l’armistizio, molti prigionieri si rifugiarono nelle campagne presso i contadini, in attesa dell’arrivo dei liberatori americani.
Un prigioniero indiano morì e ne celebrarono il funerale fuori delle mura del cimitero del paese, con canti e lamenti così struggenti, che mi impressionarono molto.
Quando i tedeschi si ritirarono passando sulla via nazionale, dai carri armati sparavano raffiche di mitra in direzione delle traverse che tagliavano la loro strada, probabilmente per timore di attentati, per intimidire la popolazione.
Io ero andata come al solito ad attingere acqua alla fontana lungo una strada traversa, a un certo punto vidi tutti che scappavano, ma non volevo lasciare il mio secchio pieno: sopraggiunse mio padre e mi trascinò via. Alle spalle sentivo crepitare la mitragliatrice: mia madre mi credeva già morta, pianse quando mi vide tornare, tanto che mi sentii in colpa.

Anni prima, all’inizio della guerra, avevo conosciuto un soldato tedesco al quale mi ero molto affezionata, era il fidanzato di una giovane cugina di mia madre, mi faceva sempre il verso quando invece di dire: - no- emettevo un suono tipicamente dialettale,
intrascrivibile, una sorta di - nnzz -
Che fine fece l’allegro, l’affettuoso Rudolph? Riposa forse anche lui nel cimitero di guerra tedesco di Cassino, tra tutti quegli altri giovanissimi, sacrificati come lui a un folle progetto ?
Il giorno in cui si sparse la voce che erano arrivati gli americani in città, mio padre seguì alcuni amici che andavano a Napoli e tornò la sera con un grosso pacco: una fellata di provolone e mortadella.
Quella mortadella al palato mi sembrò un nettare e da allora continua a sembrarmi squisita…
Gli americani avevano piantato le tende nelle campagne vicine: i miei cugini un pomeriggio mi trascinarono con loro, assicurandomi che ci avrebbero dato le caramelle. Nella tenda ci fecero sedere e chiesero a me, viso d’angelo, di ripetere delle parole inglesi che mi andavano suggerendo, evidentemente oscenità, che io presi a balbettare con la mia vocetta timida e loro ridevano ridevano, ridevano, anzi sghignazzavano… La mia voce cominciò ad incrinarsi, ero sul punto di piangere e così la smisero e ci dettero le caramelle.

Rientrammo a Fuorigrotta, alla fine del 1943, perché mia sorella ed io potessimo riprendere gli studi, ma niente e nessuno era più come prima.
Quando tornammo a scuola, Napoli era invasa dagli afro-americani e dagli sciuscià, e passando per i vicoli di Montesanto, sentivamo gli scugnizzi che ci cantavano dietro i versi della “Tammurriata nera”:
‘E signorine napulitane / fanno ammore co ‘ e marrucchine
Crescevamo, e allora mia madre scucì in vita i nostri vestiti e li allungò con una striscia di lana o di cotone fatta all’uncinetto, tra il busto e la gonna, con patetici risultati.
Trascinavo un paio di scarpe con la tomaia molto dura, che mi aveva provocato fastidiose mozzicature (= piaghette) sul tallone, per lo sfregamento contro la pelle. Erano state ricavate da calzolai solerti da scarpe dei nostri soldati, saccheggiate da un deposito militare e rivendute a gente come noi..
Avevamo dei cappotti ricavati dalle coperte americane, tutti dello stesso colore, un marrone rossiccio: il primo anno mi calzò da cappotto, in seguito da giacca a tre quarti e poi da giacca..
Non ricordo di aver fatto mai il bagno, in quegli anni, ci lavavamo
“a pezzi”.
Non ne potevamo più di mangiare la polvere di piselli degli americani, che aveva invaso le nostre mense e volentieri ne portavamo pacchi al professore di matematica, che ne faceva incetta, Però a casa degli zii ricchi la mangiai mescolata alla carne in scatola e mi sembrò squisita.
Anche la carta scarseggiava: i miei quaderni, di cui ancora conservo qualche esemplare, erano ritagliati da certi vecchi registri che mio padre, impiegato comunale, aveva trafugato.
Avevo tredici anni ed ero piuttosto bassina, tanto che in famiglia mi chiamavano: zi’Assunta, che era una vecchia zia di mio padre, di statura assai piccola. Poi mia madre mi rimpinzò con le vitamine portate dagli americani e ricominciai a crescere, e crebbi fino a vent’anni, raggiungendo un livello di statura accettabile per una donna del Sud e della mia generazione.
La scuola però - incredibile - era un corpo completamente separato, si studiavano gli stessi programmi di sempre, come se mai nulla fosse successo, come se l’immane tragedia che aveva sconvolto l’Europa fosse avvenuta su un altro pianeta…
Solo più tardi, dai libri, dai giornali,dalla radio, dal cinema mi venne tutto addosso: Hitler, l’Olocausto, la resa di Berlino, la Resistenza, Anne Frank, Primo Levi, Hiroshima…
Perfino delle Quattro Giornate di Napoli, perfino degli scugnizzi napoletani medaglia d’oro seppi dopo e non a scuola!

repost

lunedì 4 ottobre 2010

STORIA DEI DIECI CAPPUCCETTI

Cappuccetto Rosso,come sanno tutti,abitava al margine di un bosco,in una casetta isolata.
Da un po’ di tempo però le cose erano cambiate : operai avevano abbattuto alberi,spianato una radura e costruito un piccolo grazioso condominio di nove appartamenti,circondato da un bel giardino.
Erano venute ad abitarci nove famiglie e in ognuna di esse c’era una bambina-Cappuccetto : Giallo, Rosa,Blu,Verde,Arancione,Marrone e perfino Bianco,Nero e A Pois come la Pimpa!
“Che bello - pensò Cappuccetto Rosso - potrò finalmente giocare con altre bambine come me!”
Il giorno dopo,mercoledì,per Cappuccetto Rosso era giorno di lavoro:
si alzò all’alba e,da bravo personaggio di fiaba,infilò al braccio il cestino della colazione per la nonna e si avviò verso il bosco,non senza aver ascoltato le raccomandazioni della mamma : “Attenta
al lupo ecc ecc..”
La fiaba si svolse senza intoppi,come al solito : lupo,nonna,cacciatore fecero il loro dovere e per le otto era tutto finito.
Stretta la foglia,larga la via ecc ecc..,il lupo se ne stava tornando nella tana fischiettando,quando ti vede un Cappuccetto Rosa che gli sbarra la strada.
Il lupo s’immobilizzò sulle quattro zampe,ma il lavoro è lavoro,la fiaba è la fiaba e cominciò la solita solfa:
“Dove vai,bella bambina?”
“Vado dalla mia nonnina”
“ E dove abita?”
“In cima alla collina”,e via di corsa a divorare la nonna,che,ignara di tutto,si stava lavando e al lupo gli toccò di inghiottire anche la saponetta. Poi arrivarono Cappuccetto Rosa,il cacciatore,il lieto fine…
Il lupo se ne stava tornando alla tana,convinto di aver finito,erano le dieci,ancora presto,tutto sommato. Ricominciò a fischiettare,quando ti vede un Cappuccetto Giallo…e tutto come prima,con l’aggravante che la nonna questa volta stava prendendo una medicina amarissima…
Poi diventò un incubo: a mezzogiorno il lupo s’imbattè in Cappuccetto Blu,alle due in Cappuccetto Arancione (la nonna stava mangiando un piatto di schifosa -per la belva- verdura,che dovette inghiottire insieme alla vecchietta); alle quattro del pomeriggio ormai avanzato incontrò Cappuccetto Verde,proprio quando stava per tirare un sospiro di sollievo,infatti non l’aveva subito vista,mimetizzata com’era tra le foglie.
Il lupo ormai arrancava sulla salita,aveva il fiato grosso,la nonna poi stava stirando e nella fretta ingoiò anche il ferro bollente…E al ritorno il poveraccio non fischiettava più,si massaggiava la pancia con la zampa..
Alle cinque e mezzo (ormai tutti acceleravano e il cacciatore faceva certe orrende cuciture,che al lupo gli facevano vedere le stelle..)eccoti Cappuccetto Marrone,poi quella A Pois e Cappuccetto Bianco,che fu vista – era ormai scuro – perché aveva la mantellina fosforescente e l’ultima,l’odiosa Cappuccetto Nero ,che il lupo in un primo tempo non aveva visto,era buio pesto,poi aveva tentato di scansare,nascondendosi nell’ombra,e invece eccola emergere sullo sfondo della notte con la sua mantellina scura e chiamarlo con una vocina sadica: “Lupo,che fai,non mi vedi?”
Il povero lupo ormai rantolava,con la lingua penzoloni,camminava strisciando quasi con la pancia a terra…
E non vi dico la nonna: una volta l’aveva trovata che faceva la cacca…,è meglio sorvolare,il lupo quasi la stava vomitando..
Insomma,un vero macello.
Stretta la foglia,larga la via…finirono che era passata mezzanotte..
La mattina dopo,eccoli tutti a vociare e ad accapigliarsi nel Sindacato dei Personaggi Fiabeschi: c’erano tutti,il lupo innanzitutto,poi il cacciatore,la mamma,la nonna e i dieci Cappuccetti,asserragliate in un angolo con certi sorrisetti sornioni…
“Io assolutamente non ce la faccio più,BASTA!”ululava il lupo,con gli occhi che mandavano scintille.
“E io allora,che sono anziana e mi trovo questa bestiaccia sempre addosso?” piagnucolava la nonna.
“Credete che non sia stanco anch’io,sempre a tagliare e a cucire la pancia di quel lupo?” strepitava il cacciatore con un vocione da far paura.
“Anch’io sto male,mi è venuto mal di gola sempre a ripetere quelle raccomandazioni” si raccomandava la mamma,con la voce diventata rauca.
“Che ci possiamo fare noi?” dissero malignamente in coro i dieci Cappuccetti,la fiaba è fiaba ..”
Strillavano tutti insieme,il funzionario addetto riuscì a stento a calmarli e,dopo lunghe trattative,fu stabilito un turno:non più di due Cappuccetti al giorno,e tutti avrebbero avuto gli straordinari…
Ai Cappuccetti fu fatto un richiamo, per eccesso di zelo…
Se ne andarono discutendo ancora vivacemente..
Stretta la foglia,larga la via,dite la vostra che ho detto la mia.