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Il gadget che stava qui è sospeso per 24/48/60 ore.
Stiamo valutando una soluzione alternativa.
Ghe pensi mi, così si espresso il Presidente dell'Isola che ha già riunito un'apposita task force che si concentrerà per trovare la soluzione migliore nel minor tempo possibile.
Nel frattempo nell'Isola c'è agitazione.
Pare esistano forme di vita intelligenti.
Il Presidente è sconvolto dalla raggelante novità.


sabato 27 febbraio 2010

COMPLEANNO

Sessant'anni, ma non li dimostri:
solito ambito (per loro) complimento.

Ma io li ho tutti, nessuno
dimenticato e/o rimosso, uno
sull'altro, nessuno cancellato:
ora che l'occhio della mente
è spalancato ora che il tramonto
esplode di colori, perchè negare
questi anni di saggezza e di rigore
anni pensosi, di ricchezza
d'anima di pienezza di luce
anni dell'assaporare e del centellinare
anni della contemplazione e del distacco
anni di mitezza e nuova forza,
di libri, amici e ritrovata
armonia con le cose, anni
di pudore e silenzio, di pietà
(anni di più vicina verità).

mercoledì 24 febbraio 2010

LE ROI ...ottobre 1973 decimo punto

Doveva essere una notte da re, infatti ordinai la suite più bella dell'hotel e chiesi che mi fosse servito lo champagne da me preferito. Dentro di me sapevo che quella doveva essere una notte da ricordare per sempre. Era un bellissimo sogno diventato vero, la realtà che stavo vivendo superava di gran lunga la fantasia che diventava sogno, ma vivo, palpabile, da gustare. Il suo corpo caldo mi rassicurava, mi faceva sentire un uomo che avrebbe potuto scommettere su se stesso ed ogni volta che sfioravo la sua pelle ne ero sempre più convinto. L'alba arrivò in fretta, quasi a salutare la meraviglia della notte, dopo aver osservato quei meravigliosi colori mi addormentai sul suo seno fino a sera inoltrata, a quel punto ci avviammo verso Torino. Lungo il percorso la voglia di riabbracciarla era forte, ormai la sentivo mia, davanti all'uscio di casa sua la salutai e già il pensiero di star lontano da lei un solo giorno mi faceva intristire come la nebbia che si era infittita.
Tornando a casa mille pensieri mi sfiorarono: - " cosa avrei potuto offrire a questa donna in futuro, visto che si viveva un momento di congiuntura?" Mi risposi che avevo ben poco,nello stesso tempo mi sentivo più forte e pronto a difendere il mio posto di lavoro, adesso avevo un motivo in più. La notte del lunedi, quando si ricominciò a parlare alla Fiat degli esuberi e che probabilmente la mia linea di produzione sarebbe stata trasferita altrove, ero deciso a lottare ad oltranza. Ormai c'era in ballo il mio futuro e non solo...

lunedì 22 febbraio 2010

RICORDI DI SCUOLA, ultima parte

Era emigrato infatti in America per lunghi anni e al ritorno si era costruito un gabinetto pensile, con una vasca da bagno, che nessuno mai aveva potuto utilizzare, dato il gran freddo che si sentiva in quel posto gelido e senza condutture di acqua calda. Era rimasta come un grande souvenir, quasi un monumento all’America.
Mi occupavo anche della refezione scolastica e un anno riuscii ad ottenere delle bottiglie di sciroppo ricostituente (erano state la fissazione dei miei genitori), che distribuivo alle mamme degli alunni più magrolini.
Un giorno se ne presentò una, aggressiva, a pretendere lo sciroppo per il figlio che, le feci notare, era un bel bambino florido e robusto.
- M’attocca e me l’jà dà (mi spetta e me lo devi dare) - mi disse torva – lasse che doppo ‘o ghietto int’o cesso (lascia che dopo lo butti nel gabinetto).
Le risposi di andarsi a lamentare col direttore didattico a Baiano: non osò andarci, ma io ci rimasi proprio male.
Non avevo saputo spiegarle che “è ingiusto fare parti uguali tra disuguali” (don Lorenzo Milani).
Collaborava con me il parroco del paese, che una volta, accompagnandomi al Patronato di Avellino in macchina, mi fece uno strano e tortuoso discorso, dal quale risultava che, in altre occasioni… con altre signorine…poi le aveva lui stesso assolte in confessione…
Gli risposi che non mi sarei mai confessata, perché da quando studiavo Filosofia, non ero più praticante…Lui non osò insistere.
Nel ’58 ci furono le elezioni e in paese arrivò la DC (Democrazia Cristiana), con un enorme scudo crociato in cima alla porta della locale sezione del partito, di lampadine bianche e rosse, che di sera restavano accese e illuminavano la piazzetta.
- Signurì – dicevano gli alunni estasiati – pare ‘a allummata! – (luci della festa).
Arrivò anche la televisione, nell’unico bar del paese. La mattina gli alunni mi raccontavano episodi degli spettacoli visti la sera precedente:
Una volta, dopo aver visto “Romeo e Giulietta”, cominciarono a narrarmi la trama, confusamente, dandosi sulla voce gli uni con gli altri, tanto ne erano stati presi. La scena del verone sulle loro bocche suonava così:
Giulietta ‘mpettola (in camicia da notte) ascette fora ‘o barcone e Romeo ‘a sotto ‘a teneva mente (uscì sul balcone e Romeo di sotto la guardava), aroppa se pagliuccava co’ frate cucino d’essa e l’accerette (dopo duellò col cugino di lei e l’uccise): pagliuccarse era proprio darsi le botte.
Ecco un bell’esempio del fatto che, cambiando registro linguistico, la valenza dell’episodio declina dal sublime tragico all’opera dei pupi.
A volte mi trattenevo con gli alunni oltre l’orario scolastico e allora mi facevo accompagnare al treno da S*, con la sua carrozzella.
Una volta cambiò strada e s’inoltrò in aperta campagna, su sentieri di terreno battuto, dove la carrozza procedeva con difficoltà. Gli chiesi: - come mai avete cambiato strada? – (nel meridione è d’uso il voi).
Mi rispose: - di qui si arriva a un campo di grano, dove nessuno ci può vedere…-
S* era un uomo sui quarant’anni, un po’ pingue, piacente credo nel suo contesto, ma per me un estraneo, che in quel momento mi fece paura…La voce mi morì in gola e non seppi far di meglio che mettermi a piangere…Tremavo tutta.
S* mi guardò, fece voltare il cavallo e mi accompagnò alla stazione in silenzio.
A Quadrelle rimasi ad insegnare per otto anni, dal settembre 1952 al giugno 1960.
Per trasferirmi a Napoli dovetti rifare il concorso magistrale e fui assegnata alla scuola di Marianella, una frazione di Napoli.
Una mattina seppi che uno dei bambini era stato investito da un camion sulla Via Nazionale ed era morto all’istante. - Signurì, steve nu piezzo accà, nu piezzo allà (c’era un pezzo di qua, uno di là) si sentì in dovere di ragguagliarmi macabramente un compagno…Era un bambino sensibile: una volta aveva improvvisamente gridato d’entusiasmo, scoprendo il Vesuvio dalla finestra dell’aula…
Successivamente chiesi il trasferimento a Soccavo, sede più vicina al Vomero, dov’ero andata ad abitare con mio marito, un funzionario dell’Ufficio del Lavoro di Avellino, incontrato in treno durante i miei viaggi da pendolare della scuola. Era un poeta: mi aveva scritto struggenti lettere d’amore quando ancora insegnavo a Quadrelle. Me le mandava quotidianamente per espresso: il postino veniva in classe e me le consegnava (dovevo firmargli la ricevuta), guardandomi con occhi e sorriso maliziosi e interrogativi, ma io non aprivo bocca, limitandomi ad arrossire.
Nel 1966, nonostante avessi due gemelle di tre anni e un maschietto di un anno, riuscii a prepararmi e a superare il Concorso a cattedre di Filosofia e cominciai la mia carriera di docente all’Istituto Magistrale di Montesarchio, in provincia di Benevento.
Di nuovo su e giù nei treni, di nuovo le levatacce all’alba…
L’anno dopo ottenni il trasferimento a Pomigliano d’Arco e finalmente a Napoli, al V Magistrale, che in seguito fu intitolato a Tommaso Campanella, l’autore della Città del Sole.
Era il 1968: formidabili quegli anni…
Ci sono rimasta fino al 1991, quando sono andata in pensione.
Dopo molti anni, sono ritornata a Quadrelle in automobile, con mia cognata.
Già il viale d’accesso non era più lo stesso, fiancheggiato da alberi a perdita d’occhio, ma scorreva tra file di mediocri villette, con striminziti giardinetti.
All’entrata del paese, un edificio scolastico nuovo, con tutti i crismi.
S* e la macellaia erano morti, le figlie di quest’ultima mi accolsero con tiepida curiosità: - Siete la signorina Rosaria? -
Solo un’ex alunna mi riconobbe e venne ad abbracciarmi…
Non bisogna disturbare i ricordi: lasciamoli in fondo alla memoria, custoditi dal tempo, che di anno in anno li pàtina di dolcezza e di malinconia…
Per anni ho fatto un sogno ricorrente, con numerose varianti, ma il nucleo era sempre lo stesso: tornavo a Quadrelle, ma non trovavo più la mia classe e mi dicevano che non c’era più posto per me…Il postino aveva smarrito le lettere…
Quadrelle: le esperienze, le novità, le curiosità, gli amori, i bambini…
Quadrelle: la giovinezza…

sabato 20 febbraio 2010

RICORDI DI SCUOLA, terza parte

Quadrelle era allora un comune molto povero. La scuola elementare era alloggiata in alcune stanze del Municipio; c’era una bidella, una specie di cavernicola, di età indefinibile, sporca e maleodorante, che la mattina sortiva dal suo antro, dove conviveva con cani gatti e galline, e veniva a versare l’inchiostro nei calamai da una specie di caffettiera: se si sporcava le mani, se le passava sulle ciocche grigie che le contornavano il volto rugoso.
Per raggiungere Quadrelle, stessa via crucis la mattina: in pullman fino alla stazione della Circumvesuviana, treno fino a Baiano e poi un lungo tratto a piedi. Quando lasciavo la strada principale e imboccavo quella che conduceva al paese, trovavo un gruppetto di alunni che mi erano venuti incontro e che in primavera mi insegnarono a distinguere gli alberi fioriti: i peschi, i ciliegi, i mandorli…
All’inizio, quando passavo tra i banchi mentre facevo il dettato e mi curvavo su qualcuno per vedere come stava scrivendo, lo vedevo scattare col braccio piegato a difesa del viso, come per scansare uno schiaffo e solo lentamente i bambini capirono che le mie intenzioni erano pacifiche e che magari volevo solo fargli una carezza.
In prima elementare c’erano due bambini molto intelligenti, che impararono subito a leggere e a scrivere: il maschietto, perché aveva il padre emigrato in Germania e voleva poterne leggere le lettere e scrivergli, essendo sua madre analfabeta, la bambina per interesse spontaneo. Quando la mattina entravo in classe, lei mi volava in braccio e si metteva a carezzare le mie calze di nylon, che dovevano sembrarle la quintessenza dell’eleganza, dato che sua madre era una povera stracciona, che vedevo a volte spingere faticosamente una carriola carica di ossa di maiale, prese al salumificio e destinate al saponificio del paese vicino.
Un giorno il bambino mi portò una carta geografica unta e bisunta, che si era procurato chissà come e mi disse: - se io sto qua e il mio papà lì (a Francoforte), è vicino, perché non ci posso andare? -
Dovetti disilluderlo spiegandogli il mistero delle carte geografiche in scala.
Un altro bambino mi portò un disegno di un bellissimo cavallo dipinto di blu e mi chiese timidamente se mi piaceva. Gli assicurai che era bellissimo. Mi guardò sospettoso: - Mio padre mi ha detto: Scemo, hai mai visto un cavallo blu? -
- Ma il tuo non è un cavallo vero, è un cavallo di fantasia e può avere i colori che vuoi tu.-
Se ne andò rassicurato. Avrà dipinto nella sua vita altri cavalli tutti blu?
Un compagno disegnava sempre se stesso che dava la mano al suo fratellino gemello. Ne riempiva i quaderni. Un giorno che incontrai la madre, le chiesi:
- Che classe frequenta il fratellino? Come mai non sono insieme? -
- Ma il fratello gemello è morto che aveva tre anni - rispose lei triste.
Se lo sarà portato con sé tutta la vita, quel fratellino.
Una volta che avevo raccontato come una favola le fasi della lavorazione della lana, dimenticandomi però quella della tintura, un bambino venne a chiedermi:
- Era rossa e blu (così era colorato il suo maglione) la mia pecora? –
Una bambina rachitica, fragile e timida, mi prendeva la mano con la sua manina ossuta, quando uscivamo dalla classe e mi guardava con grandi occhi di un celeste sbiadito, che chiedevano affetto. Era molto diligente.
Quasi alla fine dell’anno scolastico morì, andai a casa sua per un ultimo saluto: l’avevano deposta sul letto con un abito bianco, la faccina smunta, sembrava ancora più piccola. La sua casa era un antro buio, vidi la pietra accanto al camino dove si faceva i compiti.
Una donna, che mi vide piangere, mi disse: - Signurì, che chiagnite affà, è stato meglio accussì, c’‘a vita è già ‘na faticata pe chi sta bbuono…-(è inutile piangere, è stato meglio così, dato che la vita è già faticosa per chi sta bene)
L’anno seguente, in seconda, accadde un fatto orribile: uno dei miei alunni più bravi e sensibili una sera gettò, per gioco, un forcone per il fieno dall’alto di una scala. Era buio e, disgraziatamente, rimase infilzato un bambino piccolo che si trovava giù nel cortile e che ne morì.
La mattina dopo trovai il paese e la mia classe in subbuglio: il mio alunno era stato portato al riformatorio di Napoli, dove andai poi a trovarlo e, a vedere la sua aria smarrita e come mi stringeva nell’abbraccio, piansi a lungo quando me ne andai.
Anni dopo seppi che, siccome si era dimostrato bravo e capace, era stato mandato in un collegio dei Frati Camaldolesi, per continuare gli studi e che non poteva più mettere piede in paese, perché i parenti della sua piccola vittima involontaria, incontrandolo, lo insultavano pesantemente, furenti che quel delitto
fosse stato la sua fortuna, permettendogli di continuare gli studi e di aprirsi un futuro migliore!
Terza, quarta, quinta classe…Gli alunni mi amavano, alcuni mi portavano per regalo due ciliegie strette nelle manine sporche, io li ricambiavo con scatole di pastelli colorati, versati in una scatola di cartone più grande, rigorosamente proprietà comune.
Alcuni ripetenti mi dicevano contenti: - Signurì, mo ammo capito! (Maestra, adesso abbiamo capito!) e mi raccontavano che la maestra precedente, soprannominata Bovolone, dalla marca di biscotti che si faceva comprare dai bambini per fare colazione, in classe si faceva pulire ‘e friarielli (broccoli) dalle bambine, trascurando forse con troppa disinvoltura la cura della classe.
Per prepararmi agli esami universitari (frequentavo la facoltà di Pedagogia al Magistero di Napoli) mi fermavo anche per mesi interi in paese, a casa della macellaia, che mi ospitava in una cameretta, dove la sera per riscaldarmi accendevo il braciere.
Per lavarmi avevo a disposizione una bacinella e una brocca di acqua gelida: l’acqua sporca dovevo poi buttarla in cortile.
A tavola mangiavo con la famiglia della mia ospite, composta da lei, il marito e due figlie.
Mangiavano tutti nello stesso grande piatto messo al centro della tavola, solo io avevo un piatto a parte.
La macellaia si lamentava dei reumatismi: allora la carne si conservava in frigoriferi rudimentali, dove lei doveva introdurre grossi blocchi di ghiaccio, reggendoli in braccio, a contatto del corpo.
Il marito la sera mi raccontava lungamente dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti
e delle centinaia di italiani, tra i quali anche lui, che erano sfilati nei cortei di protesta e durante i funerali.

giovedì 18 febbraio 2010

RICORDI DI SCUOLA, seconda parte

(campagna incolta) che circondava l’edificio; per noi maestri c’era uno stanzino con un buco scavato sul pavimento, sul quale bisognava accovacciarsi in equilibrio instabile, almeno noi donne: io evitavo strenuamente di ricorrervi e resistevo fino al ritorno alla stazione della Circumvesuviana…
C’era tra di noi una maestra toscana, che aveva sposato un avvocato del posto, partigiano fuggiasco durante la guerra, ospitato all’epoca dalla sua famiglia. Aveva bisogno spesso di quella specie di bùgnolo, perché era incinta e a volte piangeva per il disagio: io pensavo che, se avesse potuto immaginare dove sarebbe andata a finire, il partigiano, invece di farci l’amore, lo avrebbe consegnato ai tedeschi.
L’impatto con la mentalità provinciale a volte mi riempiva di sgomento: una maestra, la più anziana del gruppo, ci tenne a raccontarmi la storia di una sua figlia minorenne (allora si diventava maggiorenni a 21 anni), che se ne era fuiuta col fidanzato,osteggiato dalla sua famiglia per motivi di interesse, a Napoli. Durante una passeggiata in barca i due giovani, in seguito non s’era mai capito bene a quali manovre, erano caduti in acqua ed erano annegati. Quello che mi colpì e mi straniò fu il fatto che la madre, nel raccontarmi la disgrazia, non mostrò nessuna commozione per la grave perdita della giovane figlia, ma ostentò solo un grande orgoglio perché la ragazza, all’autopsia, era risultata intatta, vergine!
Un collega, che non doveva avere molto più di quarant’anni, così mi espose la sua filosofia di vita:
- Signurì (era l’appellativo dato allora alle maestre nel meridione, mentre i maschi erano prufessò ) je ‘a notte vott’a fa juorno, e ‘o juorno vott’a fa notte, che tradotto in italiano sarebbe: di notte aspetto che si faccia giorno e di giorno aspetto che si faccia notte, ma senza rendere quella desolata rassegnazione racchiusa in quel votto (spingo) -
Un giovane supplente mi faceva la corte, ma era così rozzo, poverino, che mai l’avrei preso in considerazione. Per un periodo mi assegnarono al turno di pomeriggio, quando uscivo dalla scuola era già scuro, e bisognava aspettare più di un’ora il pullman per Nola, per fortuna venne in mio soccorso il fratello maggiore del supplente, uno studente di legge un tantino più civilino, che mi accompagnava a Nola con la lambretta. Mi fece anche lui la dichiarazione (d’amore) e al mio stupore: - Ma lo sa che si è già dichiarato suo fratello? - mi sparò: - Ubi maior, minor cessat - e aggiunse: - Comunque avremmo piacere che lei entrasse nella nostra famiglia -
- Giesù - commentò mia madre, quando glielo raccontai - e quant’ate uommene ce stanno int’a chesta famiglia? Lassalo perdere!- (Gesù, e quanti altri uomini ci sono in questa famiglia? Lascialo perdere!)
Meno male che il turno di pomeriggio durò poche settimane!
Il terzo pretendente era il figlio di un pasticciere in odore di camorra e naturalmente non gli detti retta. Una mattina la decana (quella della figlia morta a mare) mi riferì agitatissima che aveva sentito parlare del mio rapimento! Non so perché, la cosa mi fece ridere e risposi spavaldamente che comunque mi sarei comportata come Franca Viola, l’eroina del nostro nascente timido femminismo.
Durante l’estate conobbi un giovane intellettuale napoletano, aspirante critico cinematografico, ci innamorammo e questo mi permise di ricominciare l’anno scolastico con più grinta: intanto mi ero trasferita in un altro comune dell’avellinese, Quadrelle,, prossimo a quel Mugnano del Cardinale, dove imperversava il culto di Santa Filomena, che poi si scoprì non essere mai esistita, ma solo ipotizzata in base a una lapide mal interpretata!

martedì 16 febbraio 2010

RICORDI DI SCUOLA, prima parte

A 17 anni, nel 1948, conseguii il diploma magistrale, a venti vinsi il Concorso nella provincia di Avellino e fui consacrata maestra elementare.
La mia prima sede fu Quindici di Nola, paese famigerato per la camorra.
Per raggiungerlo ogni mattina dovevo svegliarmi alle cinque: era un sacrificio così grande che decisi di comprarmi una sveglia, per non odiare mia madre che, poverina, mi veniva a chiamare ripetutamente e mi preparava la colazione (due uova sode). Non potendo sopportare il ticchettio della sveglia, però, la mettevo nel corridoio e chiudevo la porta della mia stanza, sicché a svegliarsi era sempre mia madre, che veniva di nuovo a chiamarmi almeno tre volte, prima che mi decidessi a lasciare il caldo delle coperte, e ricominciava l’odio.
Per arrivare a Quindici dal quartiere Vomero dove ci eravamo trasferiti, sempre in un rione di case popolari, dovevo prendere nell’ordine: un autobus, un treno della Circumvesuviana fino a Nola e un pullman fino a Quindici.
Quando arrivavo alla stazione, ne uscivano file di pendolari col fiato fumante per il freddo, d’inverno, e una volta un giovane mi venne incontro, mi bloccò per un istante a braccia aperte, dicendo: - Cu te facesse nu peccato mortale!-
E’ il più bel complimento che mi sia stato fatto!
Salivo nelle carrozze maleodoranti, tiravo giù tutti i finestrini, anche quando faceva freddo, per respirare, dopo poco saliva un gruppo di lavoratori, che dal lunedì al sabato non avevano altro argomento di cui discutere se non la schedina del Totocalcio.
Per fortuna, dopo qualche anno, mi furono compagni di viaggio un gruppo di colleghe e colleghi, simpatici e allegri, anche se troppo spesso ridevano di allusioni pecorecce…
Ce n’era poi una, che incontravo solo al ritorno, una incredibile zitella, una summa di assurdi stereotipi: si premurò di istruirmi che al controllore non bisognava dire né abbonata,(in dialetto sinonimo di scema), né tanto meno:
mensile (che poteva suonare allusione al mestruo femminile!), ma semplicemente mostrare l’abbonamento.
Lungo la linea ferroviaria, dove ora ci sono grovigli di strade case automobili, si aprivano scenari di alberi spettrali nella nebbia invernale, in autunno di alberi di cachi già spogli, ma con i globi solari dei frutti attaccati ai rami, in primavera poi era un tripudio di fiori.
La scuola di Quindici si trovava fuori paese: consisteva in un edificio con il solo piano terra, diviso in stanzoni destinati ad aule, arredati con una lavagna, una cattedra, uno stipetto fatiscente e lunghe panche accostate a lunghi tavolacci, dove si assiepavano una trentina di bambini.
Quando pioveva, bisognava mettere sul pavimento delle buatte (scatole di pomodoro aperte) per raccogliere le gocce di acqua piovana che cadevano dal soffitto: tic, tac…, quasi una tortura cinese, per me.
Se gli alunni avevano bisogno di fare pipì, li mandavamo fuori, nella terra

giovedì 11 febbraio 2010

LEGGENDO L'ode marittima di Alvaro de Campos (eteronimo di Fernando Pessoa)

Leggo i versi del poeta e sento
un urlo nel petto
come quando guardai da vicino
la Gioconda, nella ressa
dei turisti ammutoliti
e mi ruppe dentro la certezza
che non si poteva superare quel limite:
oltre l'Oltre non potevano esserci
che lo stesso silenzio e lo stesso mistero...
Così l'Ode Marittima segna l'orizzonte
d'ogni struggimento di Lontananze
nel grido del marinaio inglese
l'eco d'ogni possibile NOSTALGIA...

sabato 6 febbraio 2010

LE ROI.........OTTOBRE 1973 nono punto

Mi risvegliai dall'abbraccio felice come non mai, era stato bellissimo e concordammo che l'avremmo ripetuto nel fine settimana...Le proposi di andare al casinò di Saint Vincent ( visto che mi era ancora rimasto un piccolo tesoro della vincita al poker), era una giornata di sole e ci avviammo. Il paesaggio verso la Valle d'Aosta era stupendo; attraversammo un bel tratto di luoghi pieni di sorgenti e bellissima vegetazione, prima di uscire dal casello autostradale intravedemmo il casinò illuminato come un fuoco artificiale, entrando nelle sale da gioco lei mi confessò con un sorriso un pò timido che per era la prima volta che visitava uno "splendore" del genere. La feci accomodare ad un tavolo della roulette ed incominciai a puntare sui vicini dello zero. In quel momento il ticchettio di quella pallottolla d'avorio che girava sul quadrante della ruota mi eccitava inconsapevolmente, mentre osservavo alcuni giocatori incalliti intenti ai loro riti : c'era chi si allontanava dal tavolo prima che la pallina si posasse sul loro numero, chi si riavvicinava furtivamente otturandosi le orecchie solo per il gusto di vedere dove si era fermata la pallina ed altri sghignazzavano copiosamente per la soddisfazione di giocare. Persi le prime puntate ed in me calava la fiducia sapendo che la roulette non era il poker, bensì una macchina che aveva dei vantaggi numerici nei miei confronti. Allora incrociai le dita e mi affidai alla fortuna fin quando quella deliziosa pallottola si posò due o tre volte consecutive sui miei numeri, a quel punto appoggiai le mie labbra sulla fronte della mia ragazza e l'invitai a cena al night. Fu una bellissima serata e le bollicine dello champagne bevuto mi dettero il coraggio di chiederle di pernottare nell'hotel insieme a me...

mercoledì 3 febbraio 2010