Era il 9 giugno 1940, avevo compiuto nove anni da pochi giorni, mio padre mi condusse a visitare la Mostra d’Oltremare, che quella sera si inaugurava (sarebbe stata chiusa il giorno dopo) in una vasta area, ai margini del mio quartiere, Fuorigrotta, in uno sfolgorio di luci e una grande ressa di visitatori.
Stringevo forte la mano di mio padre e guardavo con occhi stupiti quel paese delle fiabe, i minareti di pietruzze luccicanti, gli ascari con i loro costumi sgargianti (era la prima volta che vedevo un uomo “di colore”), la breve teleferica, che congiungeva la Mostra alla collina di Posillipo, ma soprattutto m’incantò la Torre del Partito, all’entrata, tutta illuminata, la cui parete frontale era interamente coperta da una gigantografia di lui, il Duce, a mezzo busto, in posa di condottiero, con un sorriso smagliante, che prometteva sicurezza, assicurava il successo, garantiva la vittoria.....
Il giorno dopo, 10 giugno, nel pomeriggio stavo tornando con mia madre verso casa e vidi improvvisamente le strade vuotarsi: la gente correva nei bar o a casa per ascoltare il discorso di Mussolini, la dichiarazione di guerra…
La voce tuonava dagli altoparlanti, io non capivo gran che, ma quando cominciarono a trasmettere le ovazioni della folla sotto il balcone di Palazzo Venezia, mia madre, che aveva già sofferto la Prima Guerra Mondiale, esclamò risentita:
“Vide lloco, chillu disgraziato!”
Raggelai: disgraziato al Duce, quello della gigantografia, delle letture sul mio libro di V elementare che inneggiavano al Fascismo, ai suoi martiri…Avevo perfino vinto un premio, in una gara tra gli alunni delle scuole elementari di Napoli, per un tema sul Duce…
Però non chiesi nulla: non si usava, ai miei tempi, chiedere spiegazioni ai grandi.....
Del Fascismo mi piaceva la mia divisa di Piccola Italiana, con la M di legno colorato cucita sul taschino,il gonnellino nero e il mantello che si chiudeva in gola con una catenella dorata: ah, quanto amavo il mio mantello, che indossavo ogni sabato per l’alzabandiera, davanti alla Casa del Fascio, dove c’era un altorilievo che rappresantava Filippo Corridoni…
E fu in quella casa del Fascio che per la prima volta incontrai il Teatro: non ricordo più l’argomento della recita, fatta da ragazzi della G.I.L.(Gioventù Italiana Littorio), probabilmente riguardava la guerra e l’immancabile vittoria finale, ma il momento culminante fu la canzone di Lili Marlene, cantata da una ragazza, sotto un finto lampione, con un costume che al cambio delle luci si colorava di blu di rosso di giallo…Ne fui affascinata
La prima sensazione della guerra è legata all’oscuramento.
La sera bisognava spegnere le luci o almeno schermare le finestre, per evitare che i bombardieri nemici individuassero i centri abitati.
Mio padre una sera stese un enorme foglio di carta azzurrina – quella usata per impacchettare i vermicelli – sulla tavola della cucina, sotto la carta moschicida, punteggiata di nero dagli insetti che vi erano rimasti invischiati, la tagliò a strisce e l’incollò sui vetri delle finestre, per evitare che si rompessero “per lo spostamento d’aria”, dovuto alle esplosioni.
Quando faceva buio, accendevamo una fioca luce solo in cucina, dove i vetri delle finestre erano stati completamente ricoperti da una carta nera lucida, quella che usavamo per ricoprire libri e quaderni scolastici, perché il nero mantiene (=dissimula) lo sporco.
Il capopalazzo girava intorno all’isolato delle Case Popolari - rione Duca d’Aosta - dove abitavamo e richiamava con voce stentorea gli inosservanti: signor Pagano! Spegnete le luci! Signora Valentini!
A proposito di quest’ultima, mi è rimasta impressa una sua conversazione con mia madre: la signora si mostrava molto compiaciuta perché dalla contraerea nemica non era stato abbattuto l’aereo pilotato da suo figlio, bensì quello che gli volava a fianco.
Lei attribuiva lo scampato pericolo del figlio alle sue preghiere, rivolte alla Madonna di Pompei.
E io pensai a quell’altro aviatore caduto con una stretta al cuore: per lui non aveva pregato nessuno?
Avevo ascoltato per anni i racconti di guerra di mio padre, che era tra i pochi uomini alti all’epoca, infatti aveva combattuto da granatiere nella Prima guerra Mondiale, a 20 anni, ed era stato anche ferito a un braccio. Descriveva la vita di trincea, gli scontri corpo a corpo con gli Austriaci sul Monte Grappa, quando avanzava con la baionetta inastata, come ubriaco, e una volta ci raccontò la fucilazione di un giovanissimo commilitone napoletano, che aveva cercato di fuggire e, riacciuffato, era stato subito fucilato mentre invocava a gran voce: “Mammà, Maronna mia!”
Erano comunque fatti lontani, mitici, mentre questa guerra era vicina, incombente, ci stava addosso a tutti, grandi e piccini.
Quando i bombardamenti si intensificarono, che tormento svegliarsi di notte al suono della “sirena” che ululava in cima ai tetti, rivestirsi in fretta e correre nel “rifugio”, che poi era lo scantinato del palazzo: le prime volte noi ragazzi giocavamo a nascondino dietro i pilastri, ma poi il rumore delle esplosioni impressionò anche noi…La mattina dopo cercavamo per strada le schegge della contraerea, però corse voce che i bombardieri lanciavano penne, che esplodevano in mano ai bambini e ci fu proibito di raccogliere qualunque cosa per la strada.
Sentivamo di palazzi crollati per i bombardamenti, di gente rimasta senza casa…Ormai dormivamo vestiti, per essere più pronti a scendere nel rifugio quando suonava l’allarme..
La sera una processione di famiglie si recava a passare la notte sotto la grotta che congiungeva Fuorigrotta con Mergellina: i più tempestivi, o più prepotenti, si erano accaparrati i posti al centro, considerati i più sicuri, ma i miei genitori non ci vollero mai mettere piede.
Altri, per paura o perché non avevano più casa, dormivano sui gradini delle scale della metropolitana: la mattina, per andare a scuola, dovevamo scavalcare corpi maleodoranti e misere masserizie…
La situazione divenne intollerabile, i bombardamenti imperversavano anche di giorno: ricordo una volta, a via Toledo, la folla in fuga, che mi schiacciava contro il muro, dove rimasi, bloccata dal panico, finché una donna mi trascinò via con sé, in un rifugio poco lontano…
Un’altra volta dovemmo scendere dal treno, fra la stazione del Corso Vittorio Emanuele e Montesanto, perché era mancata la corrente. Camminavo incespicando in un tunnel al buio, chi poteva si accendeva una torcia col giornale, un ragazzo che aveva solo un accendino mi chiese della carta e io sacrificai una parte del libro delle Fiabe di Andersen che avevo con me…
Quanto mi piacevano le canzoni del tempo di guerra! Ancora adesso, restano dolci nella memoria con i loro motivi, perché comunque legate alla fanciullezza:
La Sagra di Giarabub: Colonnello non voglio pane
dammi il piombo per il moschetto
……………………………………
Colonnello non voglio l’acqua
dammi il fuoco vendicatore…..
ma la preferita era: Soldatini di ferro, tanto più che me la cantava mio cugino Fernando, con il quale avevo un feeling infantile:
Dice il bimbo : Papà, per favor
sai tu dirmi se in petto hanno un cuor?
Sorridendo il papà dice: No
I soldati che vedi oggidì
Sono tutti di ferro così.
All’inizio del 1943 le scuole furono chiuse e gli alunni promossi in base ai voti del primo trimestre.
Allora sfollammo a Soccavo, attuale periferia sovraffollata di Napoli, allora un paese di campagna, a casa di mia zia Fortuna, una casa formata da due enormi stanzoni dalle pareti scrostate, in cui ci ammucchiammo una famiglia per camera, una cucina annerita con uno sportello in alto come unica bocca d’aria e una rientranza nel muro chiusa da una porta di legno: era il gabinetto!
In seguito ci trasferimmo in un terraneo di una casa di campagna e qui entrai in contatto diretto con la cultura contadina: i materassi erano riempiti di sbreglie, ovvero di foglie secche di granturco, che la mattina bisognava rivoltare, infilando le mani in un’apposita apertura del saccone; le contadine, scoprii, non portavano biancheria intima e urinavano sulle zolle aprendo le gambe, in piedi, il che mi impressionò non poco ( tutto sommato ero una cittadina!); imparai a raccogliere l’erba per i conigli, andando scalza per i prati (i piedi mi si allargarono e si indurirono, cosa di cui da adolescente mi sarei rammaricata) e a spaccare i tronchetti di legno con l’accetta.
La sera, d’inverno, andavamo nell’ampia cucina del contadino che ci ospitava e lì ci stringevamo intorno al camino acceso, ascoltando i racconti dei grandi: “la fiamma è bella” e mi incantava.
Vidi perfino un rituale di preparazione a un matrimonio, in quei tempi così precari: in un basso c’era, esposto sulle sedie impagliate, il corredo ricamato della sposa, con le carte veline sotto i ricami per metterli in risalto…
Su una sedia c’era una grossa bambola, con un enorme vestito a campana, non destinata a giochi infantili, ma a sedere al centro del letto matrimoniale, con la gonna aperta a far da copriletto. Ancora oggi si sente dire da qualche donna anziana, a proposito di una bella ragazza: “Si’ bbella comm’a bambula mmiez’o lietto!”
Del resto in un’altra casa avevo visto dei giocattoli: un camion, una busta coi birilli, appesi a un chiodo e alla mia domanda meravigliata, i bambini avevano risposto rassegnati: “se no si rompono”.
Io invece avevo una bambolina di pezza che mi portavo dappertutto, in tasca o in una borsetta: era piena di segatura, aveva i capelli fatti con le reste del granturco e gli occhi e la bocca dipinti sulla stoffa.
Alla fine dovette rosicchiarla un topo, la trovai tutta sventrata e ne soffrii, ma ormai ero grande per le bambole.
Al piano di sopra abitava una coppia senza figli: lui ogni mattina scendeva impettito la scala, vestito da fascista di tutto punto, gambali e fez compresi. Probabilmente così conciato andava in giro per i negozi a ottenere qualche genere alimentare.
Il 26 luglio la moglie del fascista si affacciò dalla scala, gridando che il marito non aveva mai fatto male a nessuno: io non capivo cosa avesse da sbraitare così all’improvviso, poi alle spalle spuntò il marito, in borghese, senza più l’aria baldanzosa e scopersi improvvisamente quello che era: un pover’uomo.
Non si trovava più nulla da mangiare, nemmeno alla borsa nera, mia madre un giorno cosse le bucce dei piselli. Capii la fame…
Dopo l’armistizio, molti prigionieri si rifugiarono nelle campagne presso i contadini, in attesa dell’arrivo dei liberatori americani.
Un prigioniero indiano morì e ne celebrarono il funerale fuori delle mura del cimitero del paese, con canti e lamenti così struggenti, che mi impressionarono molto.
Quando i tedeschi si ritirarono passando sulla via nazionale, dai carri armati sparavano raffiche di mitra in direzione delle traverse che tagliavano la loro strada, probabilmente per timore di attentati, per intimidire la popolazione.
Io ero andata come al solito ad attingere acqua alla fontana lungo una strada traversa, a un certo punto vidi tutti che scappavano, ma non volevo lasciare il mio secchio pieno: sopraggiunse mio padre e mi trascinò via. Alle spalle sentivo crepitare la mitragliatrice: mia madre mi credeva già morta, pianse quando mi vide tornare, tanto che mi sentii in colpa.
Anni prima, all’inizio della guerra, avevo conosciuto un soldato tedesco al quale mi ero molto affezionata, era il fidanzato di una giovane cugina di mia madre, mi faceva sempre il verso quando invece di dire: - no- emettevo un suono tipicamente dialettale,
intrascrivibile, una sorta di - nnzz -
Che fine fece l’allegro, l’affettuoso Rudolph? Riposa forse anche lui nel cimitero di guerra tedesco di Cassino, tra tutti quegli altri giovanissimi, sacrificati come lui a un folle progetto ?
Il giorno in cui si sparse la voce che erano arrivati gli americani in città, mio padre seguì alcuni amici che andavano a Napoli e tornò la sera con un grosso pacco: una fellata di provolone e mortadella.
Quella mortadella al palato mi sembrò un nettare e da allora continua a sembrarmi squisita…
Gli americani avevano piantato le tende nelle campagne vicine: i miei cugini un pomeriggio mi trascinarono con loro, assicurandomi che ci avrebbero dato le caramelle. Nella tenda ci fecero sedere e chiesero a me, viso d’angelo, di ripetere delle parole inglesi che mi andavano suggerendo, evidentemente oscenità, che io presi a balbettare con la mia vocetta timida e loro ridevano ridevano, ridevano, anzi sghignazzavano… La mia voce cominciò ad incrinarsi, ero sul punto di piangere e così la smisero e ci dettero le caramelle.
Rientrammo a Fuorigrotta, alla fine del 1943, perché mia sorella ed io potessimo riprendere gli studi, ma niente e nessuno era più come prima.
Quando tornammo a scuola, Napoli era invasa dagli afro-americani e dagli sciuscià, e passando per i vicoli di Montesanto, sentivamo gli scugnizzi che ci cantavano dietro i versi della “Tammurriata nera”:
‘E signorine napulitane / fanno ammore co ‘ e marrucchine
Crescevamo, e allora mia madre scucì in vita i nostri vestiti e li allungò con una striscia di lana o di cotone fatta all’uncinetto, tra il busto e la gonna, con patetici risultati.
Trascinavo un paio di scarpe con la tomaia molto dura, che mi aveva provocato fastidiose mozzicature (= piaghette) sul tallone, per lo sfregamento contro la pelle. Erano state ricavate da calzolai solerti da scarpe dei nostri soldati, saccheggiate da un deposito militare e rivendute a gente come noi..
Avevamo dei cappotti ricavati dalle coperte americane, tutti dello stesso colore, un marrone rossiccio: il primo anno mi calzò da cappotto, in seguito da giacca a tre quarti e poi da giacca..
Non ricordo di aver fatto mai il bagno, in quegli anni, ci lavavamo
“a pezzi”.
Non ne potevamo più di mangiare la polvere di piselli degli americani, che aveva invaso le nostre mense e volentieri ne portavamo pacchi al professore di matematica, che ne faceva incetta, Però a casa degli zii ricchi la mangiai mescolata alla carne in scatola e mi sembrò squisita.
Anche la carta scarseggiava: i miei quaderni, di cui ancora conservo qualche esemplare, erano ritagliati da certi vecchi registri che mio padre, impiegato comunale, aveva trafugato.
Avevo tredici anni ed ero piuttosto bassina, tanto che in famiglia mi chiamavano: zi’Assunta, che era una vecchia zia di mio padre, di statura assai piccola. Poi mia madre mi rimpinzò con le vitamine portate dagli americani e ricominciai a crescere, e crebbi fino a vent’anni, raggiungendo un livello di statura accettabile per una donna del Sud e della mia generazione.
La scuola però - incredibile - era un corpo completamente separato, si studiavano gli stessi programmi di sempre, come se mai nulla fosse successo, come se l’immane tragedia che aveva sconvolto l’Europa fosse avvenuta su un altro pianeta…
Solo più tardi, dai libri, dai giornali,dalla radio, dal cinema mi venne tutto addosso: Hitler, l’Olocausto, la resa di Berlino, la Resistenza, Anne Frank, Primo Levi, Hiroshima…
Perfino delle Quattro Giornate di Napoli, perfino degli scugnizzi napoletani medaglia d’oro seppi dopo e non a scuola!
repost
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Stiamo valutando una soluzione alternativa.
Ghe pensi mi, così si espresso il Presidente dell'Isola che ha già riunito un'apposita task force che si concentrerà per trovare la soluzione migliore nel minor tempo possibile.
Nel frattempo nell'Isola c'è agitazione.
Pare esistano forme di vita intelligenti.
Il Presidente è sconvolto dalla raggelante novità.
venerdì 8 ottobre 2010
DIARIO DI GUERRA
Pubblicato da R.L. alle 19:40
Etichette: DIARIO DI GUERRA, racconto
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11 commenti:
bello questo spaccato di guerra napoletano x non condividi sù fb? e troppo bello buonagiornata con vasilli
Stupendo ed emozionante questo resoconto storico .... così dovrebbe essere un testo scolastico di storia, ricco di particolari e pieno di sensazioni ed emozioni e non quei libri fatti solo di nomi e di date che non provocano nessuna emozione.
Un abbraccio a tutto e buon fine settimana!
Da napoletano mi ci sono perso ancor più volentieri... Mi ha ricordato i racconti che a 13 anni mi faceva mia nonna...
:) bellissimo post.
Grazie.
buona domenica con fresculello qUI SIAMO A 6 GRADI VASILLI
Sono tempi della storia che non
si dimenticano perchè la guerra è
un orrore da ricordare affinchè non succeda più.
Buona domenica da Giuseppe.
Ho letto con avidità questa storia di vita vissuta da una bimba in quei terribili anni.
Purtroppo è di queste ore un episodio di guerra che ha stroncato la vita di quattro soldati italiani in un territorio lontano ed ostile e ora c'è chi propone di armare con le bombe i nostri aerei, poi bombarderemo quelle popolazioni, poi probabilmente la spirale dell'odio spingerà qualcuno di loro agli attentati terroristici nelle nostre città in una spirale di morti senza fine, allora: fermiamoci finché siamo in tempo!
buon lunedi con vasilli
Riri
che bello questo racconto.
io sono nata dopo la guerra e Ma ricordo i disastri del dopo ..a he ha portato dietro di se.
Ma basta leggere i libri guardare il film per vedere l'orrore , morte e devastazioni .
Il tuo resoconto storico e davvero emozionante , bisogna leggerlo con dovuta attenzione ,
verrò oggi a leggerlo tutto..
Ti lascio il mio augurio di un buon inizio di settimana.
E felice giorno Lina
buongiorno con vasilli
Buona giornata, qui oggi il sole si fa vedere ma l'aria è fresca.
Ciao da Giuseppe.
Lo vedo solo ora: giusto e commovente!
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